L’introduzione da parte dell’Istituto statistico dell’Unione Europea di nuove misure della quantità di lavoro disponibile inutilizzata nel processo produttivo consente d’interpretare in modo non consueto le complessità del mercato del lavoro del Mezzogiorno d’Italia, in particolare in un’ottica di genere, e d’individuare politiche e priorità più mirate per affrontare la “questione meridionale”. La tradizionale e rigida divisione tra occupati, disoccupati e inattivi che ci presenta un Mezzogiorno dove più della metà della popolazione non lavora e non cercherebbe neppure un’occupazione e dove la quota di donne inattive sarebbe pari a un terzo di tutta la popolazione femminile, non sarebbe socialmente sostenibile e non corrisponde alla realtà.
I tre nuovi indicatori sono complementari al tasso di disoccupazione e non alterano la sua definizione, perché definiscono nuove categorie di inattivi e di occupati. I primi due indicatori costituiscono le “forze di lavoro potenziali” o “addizionali” - FdLP, il terzo i “sottoccupati part time”, le persone che lavorano a orario ridotto, ma vorrebbero lavorare più ore o a tempo pieno. Il fenomeno delle forze di lavoro potenziali interessa particolarmente l’Italia, dato che su una platea europea di 11 milioni di persone più di un quarto risiede nel nostro Paese (3 milioni).
Dall’analisi emergono alcune evidenze. Innanzitutto il Mezzogiorno non è costituito da una maggioranza di “fannulloni”, addirittura dal 70% di donne inattive che si osservano in alcune regioni meridionali, ma da una quota rilevante di forze di lavoro potenziali. Queste sono in gran parte costituite da persone, in maggioranza donne, che sarebbero disponibili immediatamente a lavorare se si presentasse l’occasione. Di conseguenza il tasso di mancata partecipazione al lavoro che prende in considerazione non solo i disoccupati, ma anche gli inattivi disponibili a lavorare, ma che non cercano, assume valori piuttosto elevati: 18% nella media italiana, 11% nelle regioni del Centro Nord, e 32% nel Mezzogiorno che sale al 41,7% per la componente femminile. In Italia, di conseguenza, le persone che cercano effettivamente un lavoro e non riescono a trovarlo sono nel 2011 complessivamente circa 5 milioni, dei quali quasi 3 risiedono nelle regioni del Mezzogiorno.
Risulta, inoltre, che la probabilità di trovare un lavoro degli inattivi meridionali disponibili a lavorare non è molto diversa da quella dei disoccupati e che quella dell’altra componente delle forze di lavoro potenziali – gli inattivi che cercano attivamente, ma non sono disponibili a lavorare immediatamente – è persino superiore. Insomma, la scelta di non cercare attivamente un’occupazione, anche in presenza di una chiara disponibilità a lavorare immediatamente, è razionale. La propensione al lavoro degli inattivi disponibili a lavorare non è molto diversa da quella dei disoccupati, ma è molto lontana da quelle dei “veri” inattivi, depurati dalle FdLP. Infine, è altamente probabile che una quota importante delle forze di lavoro potenziali sia occupata in attività non regolari. Quali indicazioni di policy per il Mezzogiorno? Per far partire un percorso virtuoso di crescita, occorre innanzitutto ridurre i finanziamenti distribuiti a pioggia per concentrarli su pochi progetti interregionali.
Occorre principalmente creare una domanda di lavoro regolare, più qualificata, che si avvicini a due milioni di posti di lavoro per assorbire questa platea di supposti inattivi così vasta e anomala non solo in Europa, ma anche nel Centro Nord del Paese. Già sapere che occorre operare prevalentemente sulla domanda di lavoro, piuttosto che sull’offerta, è un passo avanti. Inoltre, bisogna tenere presente che non esiste un unico sistema produttivo meridionale con caratteristiche simili e in gran parte scarsamente produttivo. Bisogna, infine, puntare soprattutto su tre risorse esistenti in grande misura nel Mezzogiorno: beni culturali e ambientali mediamente superiori a quelli disponibili nel Centro Nord; una specializzazione agricola di notevole rilievo nel panorama nazionale ed europeo ma da sempre sottovalutata; risorse di conoscenza scientifica non trascurabili negli atenei, legate al ruolo dell’università pubblica.